Un racconto storico in 10 puntate
1a puntata
Se l’invenzione della ruota e la costruzione del carro che ne è stata l’immediata conseguenza, hanno risolto alla radice il problema del trasporto via terra di carichi pesanti a lunga distanza, la costruzione della nave e l’invenzione della vela sono stati i corrispettivi tecnologici che hanno consentito di risolvere l’analogo problema per via acquea: con la differenza che se nel primo caso la spinta al movimento era connaturata alla natura ed alla curiosità dell’uomo, per avventurarsi nel campo della navigazione dovevano anche essere vinti sia il terrore per la scarsa capacità dell’individuo a galleggiare sia la difficoltà di realizzare una attrezzatura che assicurasse una sufficiente autonomia per raggiungere attraverso l’infido mezzo liquido quanto l’uomo poteva vedere ma di cui non aveva conoscenza alcuna.
Comunque l’acqua, si trattasse di un corso o di una più ampia distesa, poneva ai trasporti ostacoli minori di quanto non comportassero catene montuose o foreste impenetrabili, e divenne quindi abbastanza presto una accessibile via di collegamento tra comunità, sino a costituire, specie in Mesopotamia, nella valle dell’Indo, in Egitto, elemento pregnante delle civiltà che sulle rive dei corsi d’acqua andarono formandosi, per estendersi poi verso l’interno ove i fiumi e le opere dell’uomo resero ciò possibile: in Assiria, in Egitto, in Cina, in India, magari con l’impiego di torme di schiavi, iniziarono anche le canalizzazioni di cui ancor oggi conserviamo le tracce.
Ma per fruire di queste possibilità l’uomo dovette inventare il primo mezzo di trasporto acqueo, un nuovo “oggetto” che imponeva una ancora inespressa capacità di progettazione e di previsione della stabilità in acque mosse e per la sistemazione del carico, ed una conoscenza dei materiali di cui era possibile l’impiego che lasciasse presumere sufficienti doti di durata e robustezza contro gli urti. Il primo “natante” fu certamente costituito da un tronco d’albero da usare a cavalcioni per il traghetto di fiumi, poi ampliato in zattere formate dall’unione di diversi tronchi legati assieme mediante fibre vegetali: si presume che con veicoli del genere già una cinquantina di migliaia di anni prima di Cristo l’uomo abbia raggiunto e popolato il continente australiano. Successivamente si ottenne la “canoa” scavando un tronco d’albero ed armeggiando con rami e frasche, quali primitivi remi, per la sua propulsione; si presume che tra le prime imbarcazioni sia anche da computarsi la leggera barca di papiro (un materiale di immediato utilizzo senza grossi problemi per l’approvvigionamento) nata sul Nilo, destinata però ad un rapido deterioramento per le caratteristiche di labilità del materiale impiegato.
Forse la canoa in legno di quercia, di lunghezza superiore a 10 metri, emersa dai lavori nel lago di Bracciano nel secolo scorso, e ritenuta risalire al VII-VI millennio a.C., è il primo esempio di nave di cui si abbia evidenza, oltre ad un modellino reperito in Mesopotamia, risalente circa all’anno 3500 a.C., rappresentante una piccola unità che si ritiene fosse impiegata per il traffico fluviale. Barche a vela esistevano in Mesopotamia già nel VI millennio, e gli Egizi, che sarebbero stati i primi nel IV millennio ad utilizzare le vele nei loro spostamenti sul corso del fiume Nilo, già si spingevano nel Mar Mediterraneo e nel Mar Rosso (bassorilievi egizi narrano di un viaggio marittimo effettuato all’epoca del faraone Tuthmosi II (circa 1500 a.C.) che si sarebbe spinto sino all’incirca all’attuale Somalia, rientrando in Egitto con prodotti esotici di rara preziosità), mentre sarebbero stati i Cretesi, nel II millennio a.C., i primi navigatori ad allontanarsi dalla costa ed a tentare l’alto mare. Le navi cretesi (costruite prevalentemente con legno di cipresso), avevano superato le forme delle imbarcazioni operanti nel corso dei fiumi, piatte sul fondo e basse sull’acqua, per tendere ad unità idonee a lunghe traversate ed a buona velocità, dotate di carene affinate e rastremate verso il basso, di maggiore altezza di scafo e bordi alti per meglio sopportare il mare, attrezzate anche con due timoni. I Cretesi praticavano scambi commerciali che sembra giungessero persino a contatto con la civiltà nuragica sarda, e per primi si scontrarono con la pirateria allora dominante gli scambi mediterranei, e la sostituirono nella protezione delle coste pretendendo dalle genti tutelate il versamento di tributi.
Circa le tecniche costruttive delle imbarcazioni primitive, le notizie sono praticamente inesistenti, al di fuori di generiche supposizioni basate sui materiali legnosi disponibili e sulle attrezzature, prevalentemente litiche, adoperate. Oltre alla già accennata costruzione delle canoe mediante scavo dei tronchi d’albero ed all’impiego di legno di papiro nelle costruzioni egiziane, si ha notizia di barche realizzate tendendo pelli di animale sopra intelaiature in legno, zattere formate da tronchi affiancati e legati con fibre vegetali, qualche volta migliorate nelle caratteristiche di galleggiamento e stabilità mediante l’affiancamento con otri di pelle gonfiati. In Egitto si costruirono pure, a partire dal V sino al III millennio a.C., imbarcazioni completamente di legno, quale la nave destinata al viaggio “post-mortem” del faraone Cheope, scoperta entro la relativa piramide.
Il reperto dell’unica nave greca pervenutaci, recuperata dal mare di Cipro e conservata nel museo del castello di Kyrenia, ci mostra la struttura di una nave da carico del IV sec. a.C., che navigò ai tempi di Alessandro Magno: il suo disegno figura sulle moneta greche di centesimi di euro.
I più abili costruttori di scafi sono però stati i Fenici. Questi, ristretti tra popolazioni più potenti ma da essi separate dai monti del Libano da cui ricavavano abbondanti quantità di legno di cedro, dedicarono ampiamente la loro attività alla costruzione delle navi ed alla navigazione, nella quale furono insuperati ai loro tempi, e trasmisero le loro capacità costruttive anche ai popoli che li seguirono, specialmente greci e romani. Secondo quanto afferma Plinio nella sua “Historia Naturalis”, i Fenici appresero le prime nozioni di astronomia dai Caldei, dagli Egizi e dai Babilonesi riuscendo a disegnare mappe del cielo stellato, e giovandosi del rilievo topografico tracciarono i profili costieri battuti dalle loro navi, eseguendo calcoli sulle rotte percorse che furono di utilità anche alla cartografia di Tolomeo, molti secoli dopo. Va rilevato che il Mar Mediterraneo, per la sua limitata distanza delle coste, se si escludono i tratti a sud della Sardegna e della Spagna, si prestava per tutta la sua estensione alla navigazione commerciale, che avveniva prevalentemente nelle ore diurne e nelle stagioni favorevoli, con unici punti di riferimento i rilievi costieri.
Divenuti padroni del Mediterraneo con la scomparsa della civiltà micenea, i Fenici, per l’esigenza di servirsi di porti sicuri a breve distanza l’uno dall’altro, crearono punti di appoggio e porticcioli su gran parte delle coste di questo mare (Cartagine fu la colonia fenicia di maggior splendore) a reciproca distanza tale da poter essere percorsa da una nave nell’arco di una giornata, ma probabilmente navigarono anche oltre lo stretto di Gibilterra, le cosiddette colonne d’Ercole (si narra di toccate sino in Gran Bretagna negli anni attorno al 1000 a.C., e di una circumnavigazione dell’Africa durata alcuni anni). Le colonie fenicie erano però soltanto luoghi di appoggio commerciale, non comparabili con le successive numerose colonie greche che saranno invece fonti di cultura, di arte e di conoscenza scientifica. Diodoro Siculo sostiene che i Fenici, navigando oltre Gibilterra fondarono Cadice, in Spagna, ed in contrasto con gli Etruschi occuparono un’isola disabitata di cui vollero tener nascosta la notizia pena la morte, per riservarsene la conoscenza al fine di trasferirvi eventualmente la cittadinanza di Cartagine, alle prese con in Romani, nel caso di definitiva sconfitta nel confronto con questi. Citiamo anche, per scrupolo di completezza pur se da annoverare tra le curiosità inattendibili, scritti circa l’arrivo in epoca imprecisata all’estrema punta orientale dell’America del sud, a Parahyba, di una nave cartaginese, nonché del testo di una iscrizione fenicia lì ritrovata, da considerare piuttosto come clamorosi falsi costruiti per fondare su di essi l’ipotesi di un contatto precolombiano di navigatori europei in epoca protostorica
Le unità fenice destinate al trasporto commerciale avevano rapporto dimensionale tra lunghezza e larghezza dell’ordine di quattro, da cui il nome “gauloi” (rotonde, in greco) poi trasmesso ai posteri in “goletta” e “galeone”. La lunghezza poteva variare tra i 20 ed i 30 metri, con pescaggi di circa un metro e mezzo; un terminale decorativo richiamante l’ambiente marino (ad esempio una coda di pesce) si trovava spesso a poppa, mentre a prora poteva campeggiare un simbolo della velocità quale una testa di cavallo od un’ala, e sopra il galleggiamento due grandi occhi mettevano in guardia i nemici, oltre a garantire una oculata visione della rotta da tenersi. Sono state ritrovate tracce di carene rivestite con lamine di piombo inchiodate sul sottostante fasciame ligneo con perni di acciaio, bronzo o rame, che racchiudevano uno strato di bitume ad impermeabilizzare lo scafo immerso. Le navi, del peso a nave scarica presunto in circa 30-50 tonnellate, alzavano una vela quadra, della quale prevalentemente si servivano essendo l’equipaggio marinaro ridotto al minimo per ridurre sia il peso che il costo dell’unità in servizio, spesso però insufficiente per una navigazione a remi a velocità compatibile con gli interessi commerciali. Migliorava le condizioni di stabilità della nave, quando ritenuto necessario, la sistemazione di grossi quantitativi di sabbia o pietre sul fondo dello scafo.
Le navi da guerra fenicie, in genere più piccole delle navi mercantili ma con piattaforme a prua e poppa per i combattimenti, avevano di queste forma più slanciata, erano più veloci e più manovriere, con piattaforme per il combattimento di prua e di poppa; per la normale navigazione erano dotate di una vela, che veniva ammainata al momento del combattimento per passare alla più manovriera propulsione a remi. Le più antiche effigi di navi militari fenicie si trovano in un piatto del III millennio a.C, reperito nell’isola di Siro, e nel dipinto scoperto a Volos, in Tessaglia (II mill. a.C.). Strutturalmente leggere (e quindi anche poco idonee a reggere i mari avversi), si apprende da Omero nella “Iliade” che per la notte potevano venir tratte a secco sulla spiaggia. Caratteristica peculiare delle navi da guerra era la presenza del rostro a prora, con cui si cercava di speronare sul fianco le navi avversarie. La “bireme”con i rematori su due piani, è citata dallo VIII secolo a.C., poi si ebbe la“pentecontera”(ispiratrice della “triera” greca e della “trireme” romana) con vogatori su tre livelli, lunga circa 25 metri: contava 50 rematori oltre al flautista che regolava il ritmo dei vogatori, 10 marinai addetti alla vela, ed un trio al comando. Una caratteristica costruttiva ci è stata rivelata dai due relitti rinvenuti a Punta Scario (Marsala) pochi anni fa: con una tecnica di prefabbricazione “ante litteram” si realizzavano pezzi lignei separati della nave, numerati con la numerazione punica per consentirne il giusto accoppiamento sullo scafo assemblato.
Le navi da guerra passarono dalle leggere unità greche, protette solo da scudi, alle più robuste navi romane, che avevano rapporti dimensionali non molto diversi da quelli delle unità da commercio e la cui propulsione avveniva prevalentemente a remi. Si presumono velocità di normale navigazione di circa tre nodi, forse raddoppiabili quando in battaglia veniva ricercato lo sfondamento del fianco della nave nemica con l’abbrivio della prora rostrata.
Imbarcazione di questo genere deve essere immaginata la mitica nave “Argo” che, costruita con l’aiuto della dea Atena dal carpentiere dello stesso nome, del cantiere di Tespi, permise, sotto la protezione della dea Era,
l’effettuazione delle imprese di Giasone nella Colchide (regione del Caucaso) alla ricerca del Vello d’oro, secondo una delle leggende più terrificanti ma di maggior fascino della mitologia greca.